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LIBRO D'ARTISTA

Con le poesie di Alberto Pellegatta

Si insinua il sospetto che la loro soluzione sia la nostra rovina. Così si disfa il fuoco.
Un mulinello assorbirà ogni cosa persino i baci della bocca. E il labirinto affonderà nella siepe stessa. I pesci saranno ferite dell'acqua, il paesaggio ormai sfuocato. Mentre si consumano i denti. Eh, sì ci pentiremo di ogni smorfia della bocca, persino dei sorrisi disarmanti. Così dice allontanandosi: A volte mi aiuta pensare in decime di ottave, o guardare sul muro le macchie di muffa che l'intonaco trasforma in figure enigmatiche.

Erba devota, coltivata con cura nel convento. I piatti, le mani, il metallo nei cesti liturgici.

Ma in fondo era un nero soffice non era verde. Tu forse avevi in mano un lumino, mentre crescevano, fotosintetici, i nostri disordini.

Impenetrabile dolce del tabacco nei legni assolti. Le lumache sui tuoi ponti. E la notte che si bagna come un geranio nero.

Dallo sgabello ai pesci al corridoio che sprofonda. Progetta la fine della sciarpa e brucia carta di Eritrea.

Triste nel gelo gonfio e con le bende - dopo scale fumose o leggi naturali si alza prima al mattino per fare ancora meno.

Girandole di gas nel vuoto concavo che ci contiene tutti. Non c'è nessun centro e l'orlo si cuce su se stesso. Il tempo è spazio che si espande. Il tempo è fame e lo spazio è freddo. Abiterò infrastrutture luminose.

Saremo più lontani, i mondi dai mondi e farà più freddo, fino a riassorbirsi dentro a un buco. Oppure si riconcentrerà fino a riaccendersi.

Ma adesso, l'attimo presente, è la capitale del Tempo.

Si sono ispessite scendendo nel fondo schivando il metallo, aggrappandosi al buio. Scendono a scatti, cercando l'attrito.

Sbriciolano, corrompono, depongono. Alla farina, ognuno alla sua sabbia, al mulinello più banale ritorna ogni animale.

"Chi siamo?" chiede il quasiprete quando piuttosto dovrebbe domandarsi se per caso siamo veramente.

Complessità elementari, osmosi e strade e case.

Molluschi siamo in una maglia di legami, siamo la taverna e il canto il vuoto dell'origine, la mancanza, la nera distanza che si riproduce. Siamo le piccole madri bianche.

La foto dell'artista malato si avvicina nel piano americano.

L'astuccio è incantesimo e rifrazione.

I leoni scavano nella polvere mentre scappa il battaglione degli infetti. Nelle sequenze simultanee mancano le traiettorie, manca l'orizzonte.

Entra nel rapporto, due metri di me saranno tutta l'opera. Intanto il paesaggio fonde disarmato.

Incomincia in un posto di mare o in mezzo a una pianura stretta ai laghi, crede che per vivere si debba aspettare l'anno prossimo, l'oltre futuro dei morti.

Che sono muffe nere nella testa.

Mentre la salute è un mistero sconcio, meraviglioso e, finalmente, senza futuro.

Privata di movimento e vanitosa, forza le pagine con preoccupazioni irreversibili e drenati. Così il racconto si stinge.

Lucidate pure le vostre posate, il terreno marcescente spinge il pettegolezzo in questa trappola.

Si svapora - dove nessuno ci guarda.

La luna sigilla le nostre case: è tardi anche per i brividi.

Ricreazione

Superpoteri e lumache nella testa.
Non è più tempo di versi balneari. Ripetere parole liberate dalla frase.
Agitarsi fino a farle flettere.
E dopo cosa? L’acqua che diventa intelligente.

Ogni gesto della mano che usi la terra per offrirci forme, ripete all'infinito i gesti della creazione a cui non assistemmo

© Narciso Bresciani CF: BRSNCS62E11G388C

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