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LUCA PIETRO NICOLETTI

LA SCULTURA COLORATA

Territmi, è il ciclo di sculture avviato da Narciso Bresciani intorno al 2015 portando a gradi di complessità sempre maggiori una ricerca intorno alle possibilità espressive della ceramica. Le sue radici di sensibilità e cultura visiva sono nei modi e nelle tecniche dell’Informale, ma con una inedita esigenza di costruire, attraverso il lavoro sulla materia, delle coloratissime strutture tridimensionali. Bresciani è infatti prima di tutto un artista che colora la scultura, che prepara artigianalmente ossidi e pigmenti da applicare sulle sue superfici facendone un uso pienamente coeso con le esigenze formali: il colore, infatti, non è una patina sovrapposta ai valori formali, ma una nota che conferisce all’insieme plastico una più chiara leggibilità e una precisa intonazione di poetica senza negare la qualità epidermica del medium.

Il fatto che Bresciani usi il colore così intensamente, senza i compiacimenti del ceramista e con la solida consapevolezza dello scultore, non penalizza al contempo il ruolo della terra refrattaria nel risultato finale dell’opera. L’effetto della materia modellata d’impulso, con le sue increspature e irregolarità sottolineate dal lavoro di gesto, infatti, non è un esito conclusivo ma un punto di partenza per l’edificazione di una vera e propria architettura attraversabile con lo sguardo, apprezzabile nel pieno come nel vuoto e soggetta a una complessa possibilità di perlustrazione di dettaglio. Come ha osservato Jacqueline Ceresoli, presentando nel marzo 2017 la sua mostra personale milanese presso l’Ex Studio di Piero Manzoni in via Fiori Chiari, «Bresciani rende facili le cose difficili, sperimenta il colore con un orientamento chiaramente informale-materico, risolve la sperimentazione di nuovi impasti con sculture più aperte, ritmiche dal moto ascensionale». È l’apparente naturalezza di un’immagine che sembra essersi fatta da sé e animata da una tensione interna che spinge la forma a volersi staccare da terra per tradurre quell’avvitamento di linee di forza interno alla forma in un aereo volteggio nello spazio. Questo è possibile perché il lavoro di Narciso Bresciani procede per aggregazioni di elementi singoli: la scultura è il risultato dell’assemblaggio di parti sviluppate separatamente, o meglio di frammenti elementari nati autonomi e poi aggregati come se una forza di attrazione improvvisa li avesse calamitati verso un nucleo unitario provocando un esito unitario. Era già così per un precedente ciclo di opere presentato nel 2012 nella mostra Metamorfosi corporee, dove al scultura era costituita dall’addizione intorno a un asse di sfere di ceramica su cui l’artista era intervenuto provocando fessure e lacerazioni, manipolando la sfoglia di argilla in modo che la forma geometrica elementare fosse sottoposta a rigonfiamenti o flessioni. Per questo Claudio Cerritelli aveva parlato in quell’occasione di «sculture pulsanti» con le quali l’artista compiva una «esplorazione profonda dell’inconscio»: un lavoro non programmato, il suo, che si genera mano a mano che procede nella manipolazione, selezionando e disponendo gli elementi singoli in «un percorso di possibilità creative da cui si generano stati primordiali del visibile». Gesti semplici, insomma, come comprimere e forare, rimodulare i volumi con una semplice pressione delle mani provocando incavi e dando la sensazione di una materia organica morbida e duttile, sensibile al tocco, come fosse continuamente manipolabile. 

Ed è qui, a mio avviso, che si individua l’elemento narrativo di questa scultura: quell’atto di trasformazione, quasi di metamorfosi, sembra compiersi sotto gli occhi del fruitore, quando invece è stato cristallizzato in maniera definitiva dalla cottura. Eppure resta l’impressione di un’immagine in fieri, di uno stadio intermedio di un processo che si sta compiendo. Queste sfere l’una accanto all’altra dentro un cavo più grande, oppure impilate l’una sull’altra in una colonna irregolare, non formano una natura morta, ma provocano una situazione dinamica: sta accadendo qualcosa anche se non si sa mai bene in che direzione stia andando. Lo stato di precarietà metaforica attivato dalla scultura, insomma, mette in moto un accadimento che si sembra svilupparsi per un moto interno senza bisogno della presenza umana, come un processo naturale che si compie in se stesso. In questo senso sempre Cerritelli osservava nel 2012 che «Bresciani cerca l’energia tattile delle pulsioni primarie, i punti di congiunzione tra allusioni figurali e tensioni astratte, lacerazioni e tagli, procedure essenziali per rivelare gli stati viscerali del corpo, gli spazi nascosti nel magmatico fluire delle forme». A maggior ragione, questo fenomeno si amplificava nelle installazioni di carattere ambientale, quando questi singoli elementi, nati provocando durante la modellazione delle lacerazioni nella struttura di sfere o ciotole o anfore, vengono disseminati sul terreno con varie disposizioni e il singolo oggetto, pur autonomo, non vale più soltanto per se stesso ma anche per il suo contributo a un insieme più ampio. In questo, come aveva osservato Flaminio Gualdoni commentando nel 2016 un altro ciclo di opere di Bresciani, i rilievi a parete lunghi e stretti degli Orizzonti, «non si avverte […] il retrogusto della liturgia fabrile, l’offerta all’apprezzamento estetico. Son lavori, i suoi, che nascono nel lungo, concentrato, intenso, a volte digrignante ma mai fittizio, tempo d’anima dello studio: e nei suoi silenzi. Ed è un tempo tutto introverso, esclusiva, di pienezza interrogativa di sé». Nei Territmi avviene qualcosa di analogo: una aggregazione narrativa di frammenti inizialmente a base modulare rettangolare o quadrata, da cui prendono forma delle “capanne” composite di lembi di materia coloratissima che paiono tenuti insieme più da una forza di attrazione che da una coesione strutturale. Dell’architettura hanno conservato l’idea di una forma che si può vedere da dentro e da fuori, che ha un esterno non come limite di un volume pieno, ma ossatura che delimita uno spazio e consente di apprezzarne lo sviluppo interno tramite varchi aperti in più punti, come a voler spingere lo sguardo ad addentrarsi nel cavo perimetrato dalla scultura. L’insieme che ne deriva è dunque molteplice e pronto a rivelarsi sotto aspetti di volta in volta differenti a seconda del punto di osservazione. Non esiste, in fondo, un’angolazione privilegiata per un colpo d’occhio unitario: Bresciani suggerisce piuttosto di seguire l’avvitamento dei singoli lembi di materia intorno a un asse, come se un vento avesse azionato il meccanismo interno alla forma sottolineando lo stadio provvisorio di un assemblaggio su cui si sono formate delle concrezioni minerali, ma che sembra sempre sul punto di essere smontato e ricomposto, e che al contempo rimane sempre trasparente rispetto ai propri processi costitutivi: seguire la dinamica di questi frammenti che si depositano su una struttura e vanno a comporre un insieme, infatti, dà l’impressione di seguire le varie fasi di lavoro con cui l’artista ha assemblato la scultura. Si ha la sensazione che quel tetto di un blu intenso sia appena calato sopra quattro colonne per fare da copertura alla “capanna”, che quel colpo che ha strappato un lembo di materia ripiegandolo su se stesso sia stato appena inferto, insomma come se un improvviso schioccare di dita abbia improvvisamente animato ogni pezzo portandolo a fluttuare fino a raggiungere la propria posizione nell’insieme. Se si riflette sul lato tecnico dell’esecuzione materiale, tuttavia, ci si rende ben conto che non può essere così, e che questa impressione è un’intenzionale scelta di poetica. Basta infatti rendersi conto che la colorazione, che ha un ruolo così importante in questa ricerca, è sempre successiva alla modellazione, per comprendere la capacità immaginativa con cui Bresciani ha controllato il piano tecnico e quello formale garantendo al risultato finale il senso di una leggerezza e naturalezza inimmaginabili, come se tutto fosse stato semplice e immediato. Qui, come aveva osservato Gualdoni già nel 2016, si consuma una «contaminazione consapevole tra retaggi di codice» possibile grazie alla ceramica quando fa coesistere un piano plastico e “sculturale” con uno cromatico strettamente pittorico. I Territmi, in fondo, sarebbero impensabili privi di colore, perché verrebbe meno quel dinamismo insito nella stessa strutturazione narrativa dell’insieme. Ed è il colore, in fondo, l’elemento strutturante che chiarisce i rapporti tra le forme, sottolinea i punti di dinamismo e stabilisce gli equilibri compositivi e rende inequivocabilmente leggibili i ritmi e i movimenti. Per questo, forse, è arrivato a una colorazione timbrica, seppur attutita dall’uso degli ossidi e non degli smalti - pure utilizzati in passato – in modo da mantenere una superficie opaca che non tradisce la propria natura fittile ma anzi la evidenzia. Ma il colore ha una funzione ulteriore: stabilisce la temperatura emotiva gioiosa e conferisce all’insieme una declinazione ludica. A ben vedere, i luoghi descritti da Bresciani sarebbero inospitali per l’uomo: un’idea di abitazione troppo provvisoria per poter essere definita “casa”, ma con un’intonazione ludica che rende tutto più aereo e leggero. Si direbbero strutture fragili, sempre in via di metafora, per resistere al tempo, come sedimentazioni di un tempo precario destinato alla transitorietà: un moto interiore le ha portate ad unirsi, ma si immagina che un soffio di vento le possa fare oscillare, rendendole canore e danzanti sculture.

Ogni gesto della mano che usi la terra per offrirci forme, ripete all'infinito i gesti della creazione a cui non assistemmo

© Narciso Bresciani CF: BRSNCS62E11G388C

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